Cambiamenti climatici: ci salveranno le “piante pallide”?
Secondo una ricerca italiana del CNR e dell’Università di Verona, per contenere l’effetto serra dovremo coltivare vegetali con bassi contenuti di clorofilla, capaci di riflettere più radiazione solare
Qualche anno fa il dito è stato puntato contro i bovini, ritenuti responsabili di un’altissima percentuale delle emissioni globali ad effetto serra. Ora sotto la lente passano le piante troppo verdi. Detta così, suona male. Eppure è quanto emerge dall’opinion paper – viene così definito un punto di vista personale seppure autorevole correlato a una specifica ricerca destinata a informare e stimolare un dibattuto – pubblicata sulla rivista Global Change Biology.
I ricercatori Lorenzo Genesio e Franco Miglietta (Istituto per la bioeconomia del Cnr) e Roberto Bassi (Università di Verona) affermano che l’avvento di una nuova generazione di piante a basso contenuto di clorofilla potrebbe essere un’arma in più nella lotta al cambiamento climatico.
«Una strategia utile a controbilanciare una parte del crescente effetto serra», spiega Lorenzo Genesio, «è quella di aumentare la frazione della luce solare che viene riflessa dalla superficie terrestre che, tornando indietro verso lo spazio, non contribuisce al suo riscaldamento. Questo risultato potrà essere ottenuto anche coltivando nuove piante con bassi contenuti di clorofilla; piante più “pallide” che riflettono molta più radiazione solare».
«In sintesi», chiarisce Franco Miglietta, «coltivare varietà di piante più pallide (di grano, orzo, mais, soia) equivale a ridurre le emissioni di gas climalteranti, con un effetto di riduzione delle temperature a scala locale nelle zone più densamente popolate».
Non solo, secondo il comunicato stampa diramato dal Cnr per annunciare la notizia, alcune ricerche, che si aggiungono a quelle fatte dagli autori in questione, dimostrerebbero che riducendo il contenuto di clorofilla, oltre a riflette più luce solare, si può arrivare ad avere tassi di fotosintesi più alti e maggiore produttività.
Non resta che attendere gli approfondimenti. Un dubbio però s’impone fin d’ora. Se oggi si considera sempre più urgente e necessario includere nelle ricerche volte a migliorare le caratteristiche produttive delle piante il principio della sostenibilità, come si concilia l’obiettivo di una maggiore produttività proprio tra quelle colture come mais o soia che sono comunemente impiegate nelle tecniche intensive?
Michele Mauri
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